Andare in pediatria, andare in medicina … e poi scoprire che a guarire sono io! 🙂

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cari tutti,
sabato scorso sono riuscita ad andare a fare servizio in ospedale.
Ero con Ranocchio e Ciurrita! Che bello!!!
Ero piena di energia, avevo voglia di incontrare gli amici in turno, di intrufolarmi nelle stanze, di scoprire una volta di più volti, storie, accogliere sorprese, situazioni, sguardi, vita….
Ora sento il piacere di scrivervi non tanto per condividere il “come è andata”, ma per qualcosa che si è mosso dentro. Tecnicamente è “andata bene”: come siamo stati capaci, alla buona, abbiamo strappato sorrisi, occhioni, parole e minuti carichi di umanità. Siamo stati grandi e piccolissimi al tempo stesso perchè quando in ospedale ci si rende bersagli e/o contenitori di qualunque cosa si incontri o succeda, stiamo amando … e questo è bello.
Ma quello che volevo condividere, qua, sono due cose accadute, o meglio, due cose che mi hanno interrogata dopo che sono accadute.
Parto dalla pediatria dove, in una delle tante stanze, abbiamo incontrato un bimbo (non saprei scrivere il suo nome) fratello di altri due bimbetti (uno piccolo e una grandicella) presenti in stanza con mamma e papà. Come ci siamo avvicinati, il bimbo malato ci ha accolti con una ostentata indifferenza. Si vedeva che voleva sfidarci facendo finta di non vederci. Poi, ad un tratto, davanti alle nostre “idiozie” non ha più resistito, ed è scoppiato a ridere iniziando a interagire fino tirarsi in piedi sul letto pieno di voglia di giocare.
Fin qua tutto bene … ma la questione che volevo porre è un’altra: nella dinamica del gioco, a un certo punto, ci siamo trovati tutti in fondo al letto, lui sopra e noi ai piedi, con lui che, nel suo giocare, continuava a dire “Tu no vivi! Tu non vivi!” facendo finta di ucciderci.
Mi sono chiesta se il brivido che ho provato in quel momento, a sentire quelle parole nella bocca di un bambino (e gli occhi di Ciurrita mi hanno fatto capire che aveva un sentimento simile al mio) è partito perchè quella famiglia era presumibilmente musulmana. Per un attimo davanti a me non avevo pià il musetto di quel birbante ma la cronaca dei giornali, il martellamento mediatico che, fortissimo, più che mai, ci racconta di storie terribili, di bambini educati a uccidere e a giocare con la morte …
Mi sono chiesta se, sentendo quelle parole da un bimbo italiano, avrei provato lo stesso breve sgomento.
Con lui ho giocato, sono morta e rinata parecchie volte in quella stanza, in un gioco clown stupido ma tenace. In quel momento ho deciso di stare al suo gioco e di lasciargli scaricare tutta la sua energia, la sua voglia di sconfiggere qualcosa, qualcosa che magari non conosce nemmeno e che forse altro non è che la sua malattia ….però mi sono interrogata, dopo, su quell’attimo di smarrimento che ho avuto io, sul cosa può provocare, nel cuore, il condizionamento mediatico o la paura per il sangue che sta scorrendo nel mondo e, al tempo stesso, la voglia di prendere in mano quel gioco “pericoloso” e di girarlo in qualcos’altro, il desiderio di lasciarmi sconfiggere per far vincere lui, per far vincere in lui il gioco, la leggerezza, la gioia, la spensieratezza, la vita. Ancora non so cosa è stato ma non mi esce dalla “pancia” e voglio farci i conti perchè voglio che la forza del mio, del nostro, naso rosso, non si spenga davanti a niente, nemmeno, e specialmente, davanti alla paura che il mondo ci fa respirare …
Un altro piccolo momento di sbarellamento, mi ha colta poi anche in medicina davanti all’ultimo vecchietto che abbiamo incontrato, il sig. Gino. Un incontro breve, intenso, quasi intimo. A un certo punto lui ha detto con occhi presenti e ben consapevoli: “cerco di non perdere la speranza” e in quel dire c’era tutta la sua solitudine davanti al destino, tutto lo stare di un uomo che si vede davanti a un appuntamento reale e prossimo con la vita. Troppo facile commiserarlo e fargli una carezza o dirgli robe del tipo: “su, non si abbatta, si faccia coraggio” …. Per un secondo mi è mancato il respiro e mi sono chiesta che senso avesse dirgli qualunque cosa o che diritto avevo io di giocare con quel sentimento così vivo e così fragile che lui stava condividendo con me. Per un attimo mi sono chiesta chi ero io per prendere quel suo tremare e tirarlo per aria come la pallina di un giocoliere …. Poi, in attesa che la “testa” mi desse delle risposte, la “pancia” si è messa in azione e così mi sono trovata chinata a guardare se sotto il letto, negli angoli della stanza, sul comodino o sul terrazzo ci fosse un brandello di speranza che fosse caduto via da quel cuore … ma per fortuna nessuna traccia: tutto a posto! Che bello!
E’ stato un momento, un attimo, un secondo, durante il quale tutte le domande sul destino, sulla vita e sulla morte mi hanno attraversata e durante la quale la risposta che mi è arrivata, grazie al cielo, è stato solo il giocare leggero e la voglia di amare quella persona per un momento …
Il signor Gino mi ha sorriso quando gli ho detto che non avevo trovato pezzi di speranza in giro. Mi ha guardata con gli occhi di chi guarda un bambino che crede nelle fate … ma sono sicura che per un attimo ci ha creduto anche lui.
Questo è quanto …. chiedo scusa ai compagni di avventura, Ranocchio e Ciurrita, perchè li ho esclusi dal racconto. Questo non vuol dire che non li abbia sentiti, anzi! E’ stato bello lavorare con loro e passare un paio d’ore insieme, ma ci tenevo a condividere queste cose che mi sono passate dentro e che mi hanno interrogata fino a farmi capire che, in un certo senso, il malato sono io ogni volta che entro in una stanza fasciata e rassicurata da tante cose, un po’ anestetizzata dalle sicurezze che ci portiamo in tasca … solo che l’altro giorno la tasca mi si è bucata e da quel buco è entrata la vita … ed è stata una gran bella sorpresa!
Un abbraccioa tutti!!
Pimpi